“Tutti, in qualche modo, mentono. Mentono agli
altri e mentono a se stessi. Mentono sulle loro azioni e mentono sui veri
motivi di quelle azioni. Ci sono quelli che lo sanno, pochi, e quelli che non
lo sanno, la maggioranza”. Scrive Gianrico Carofiglio, scrittore ed ex
magistrato che ha fatto tesoro della sua esperienza nelle procure riversandola
nella scrittura.
La versione di Fenoglio è, non casualmente, un romanzo che
esplora il metodo di indagine facendone una metafora più ampia. E’ vero
che lo scrittore racconta, attraverso il dialogo tra un maresciallo alle soglie
della pensione e un giovane molto intelligente ma disorientato sul futuro, una
serie di episodi di casi investigativi, però l’impressione è che sia anche un
espediente per parlare del nostro rapporto con la vita, del precario equilibrio
tra bugia e verità. In mezzo ci sono le parole e non a caso il maresciallo
Fenoglio paragona l’indagine all’arte di raccontare storie. Perché quella di
Fenoglio (guarda a caso il nome è lo stesso di un altro scrittore) è, appunto,
una versione. Lui stesso alla fine invita a diffidare “delle storie in cui chi
racconta è il protagonista e l’eroe” perché l’obiettività non esiste. Interessante
il paragone tra l’attività dell’investigatore e quella dello scrittore: in
entrambi i casi si tratta dell’arte di “guardarsi attorno”, di “osservare
lentamente”. “Solo così smetti di dare le cose per scontate e cominci a vedere
davvero ciò che ti circonda”. Sia lo scrittore che l’investigatore devono “registrare
cose che hanno visto tutti e mostrarle come se fosse la prima volta, come se
prima non le avesse mai notate nessuno”. Una definizione in cui, nel mio
piccolo, mi ritrovo.