Io ho un vizio, o una qualità, o semplicemente una
caratteristica che, comunque sia, non esiterei a definire un po’ schizofrenica:
leggo più libri in contemporanea. A seconda dell’umore, del tipo di giornata o
delle condizioni del luogo di lettura, scelgo se proseguire con uno o con
l’altro. Naturalmente succede che ce ne sia qualcuno che mi piace di più e
qualche altro che apprezzo meno, di conseguenza la progressione delle pagine
avanza con un ritmo totalmente diverso. I libri che non mi piacciono si fanno
lenti e pesanti, mentre gli altri scorrono che è una bellezza. Ecco che in
questo periodo ho a che fare con tre libri, due romanzi e un breve saggio. Il
primo che ho iniziato è ancora fermo a metà, il secondo l’ho appena finito. Mi
viene da farne un confronto perché nella loro diversità hanno qualcosa in
comune: entrambi trattano un argomento a me caro, ovvero i rapporti familiari
nel tempo. Il primo, di cui forse scriverò qualcosa nei prossimi post, è
melenso e scontato, permeato da una patina di nebbiosa malinconia che lo rende
in qualche modo sterile; il secondo, cioè quello di cui mi accingo a parlare, è
invece acuto grazie ad una divertita e scanzonata ironia.
Silvia Ballestra la ricordo come autrice fin dai tempi dell’università. Ha circa la mia età e all’epoca stavamo evidentemente frequentando lo stesso ateneo, peccato che lei fosse già una scrittrice. Aveva pubblicato Il compleanno dell’Iguana e La guerra degli Antò. Invidia pazzesca. Naturalmente, li avevo letti e non ricordo, onestamente, quanto apprezzati. Dopo un siderale lasso di tempo – nello specifico qualche decennio – mi è capitato tra le mani un suo libro più recente, Tutto su mia nonna. Titolo curioso. Quasi fosse un incontro casuale tra due amici dopo tanto tempo, ho deciso di leggerlo. Mi ha sorpreso parecchio il continuo cambio di registro da un capitolo all’altro, come se ci fossero più mani o più personalità a scrivere. Una schizofrenia verbale. C’è il tono di chi ricorda con affetto una storia familiare che inizia con la vita di nonna Fernanda, della mamma, delle zie, del nonno Vittorio, poi irrompono dialoghi surreali con lettori immaginari, personaggi in cerca d’autore, strampalati come fumetti, e di nuovo il ritorno al passato, facendo scorrere immagini ingiallite di una pellicola degli Anni Settanta, memorie in bilico tra affetto e divertita ironia. Le figure rimangono incomplete, le storie non si chiudono, la struttura romanzesca non esiste (l’autrice stessa lo confessa candidamente in una comica parentesi meta-letteraria), il linguaggio è un pastiche tra l’italiano, il dialetto marchigiano-abruzzese e un originale lessico famigliare (con il “gl”, ovviamente!), unico, che appartiene e caratterizza, a guardarci bene, ogni famiglia. Non c’è bisogno di raccontare nulla in merito alla storia, perché sono brandelli di tante storie tenuti insieme da chi, ad un certo punto, ha ritenuto che valesse la pena raccontarle.
Silvia Ballestra la ricordo come autrice fin dai tempi dell’università. Ha circa la mia età e all’epoca stavamo evidentemente frequentando lo stesso ateneo, peccato che lei fosse già una scrittrice. Aveva pubblicato Il compleanno dell’Iguana e La guerra degli Antò. Invidia pazzesca. Naturalmente, li avevo letti e non ricordo, onestamente, quanto apprezzati. Dopo un siderale lasso di tempo – nello specifico qualche decennio – mi è capitato tra le mani un suo libro più recente, Tutto su mia nonna. Titolo curioso. Quasi fosse un incontro casuale tra due amici dopo tanto tempo, ho deciso di leggerlo. Mi ha sorpreso parecchio il continuo cambio di registro da un capitolo all’altro, come se ci fossero più mani o più personalità a scrivere. Una schizofrenia verbale. C’è il tono di chi ricorda con affetto una storia familiare che inizia con la vita di nonna Fernanda, della mamma, delle zie, del nonno Vittorio, poi irrompono dialoghi surreali con lettori immaginari, personaggi in cerca d’autore, strampalati come fumetti, e di nuovo il ritorno al passato, facendo scorrere immagini ingiallite di una pellicola degli Anni Settanta, memorie in bilico tra affetto e divertita ironia. Le figure rimangono incomplete, le storie non si chiudono, la struttura romanzesca non esiste (l’autrice stessa lo confessa candidamente in una comica parentesi meta-letteraria), il linguaggio è un pastiche tra l’italiano, il dialetto marchigiano-abruzzese e un originale lessico famigliare (con il “gl”, ovviamente!), unico, che appartiene e caratterizza, a guardarci bene, ogni famiglia. Non c’è bisogno di raccontare nulla in merito alla storia, perché sono brandelli di tante storie tenuti insieme da chi, ad un certo punto, ha ritenuto che valesse la pena raccontarle.