Indagare il tema del suicidio è affascinante e spaventoso
allo stesso tempo, come guardare il fondo di un abisso mentre ci si trova sul
ciglio del precipizio. Il vuoto sembra chiamare, risucchiare chi lo sta
guardando. I motivi che spingono colui che fa questa scelta a mettere un piede
avanti e lasciarsi inghiottire dal nulla possono essere tanti, ma a volte pare
non ci sia una spiegazione razionale. E’ il male di vivere, quello raccontato
da Montale (… era il rivo strozzato che
gorgoglia / era l’incartocciarsi della foglia…) che, senza un perché,
diluisce la linfa vitale.
Ho trovato subito intrigante l’idea su cui ruota questo
romanzo: quattro persone stanno per compiere il gesto irreparabile di togliersi
la vita, ma uno strano individuo le avvicina offrendogli la possibilità di
ripensarci. Consente altri sette giorni di tempo per osservare come proseguirà
la vita senza di loro, per essere spettatori della loro stessa vita. Mi viene
un altro paragone con un romanzo italiano, Il fu Mattia Pascal, quando il
protagonista si trova, sia pure in circostanze diverse, nella condizione di
“forestiero della vita”. Ecco, per una settimana i quattro protagonisti sono
forestieri della loro vita, hanno il privilegio di poterla guardare da fuori in
uno strano incanto, una sorta di surreale standby. A vivere questa bizzarra
situazione sono due donne, un ragazzino e un uomo: le prime sono Emily, ex
ginnasta olimpica, e Aretha, poliziotta di carattere; poi c’è il piccolo
Daniel, diventato suo malgrado divo della pubblicità, e Napoleon, un uomo che
ha conosciuto fama e successo nei panni del motivatore. Ognuno di loro ha una
ragione per desiderare di farla finita, tranne Napoleon, almeno all’apparenza.
Riuscirà lo strano individuo senza nome a salvarli? O meglio, riuscirà
nell’intento di far capire loro quale sia la giusta strada per la salvezza?