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Splendido visto da qui, di Walter Fontana





Se non avessi letto su internet che l’autore ha lavorato in pubblicità, avrei pensato che sicuramente l’autore è uno che - quanto meno - ha lavorato in pubblicità. Le sue descrizioni fluttuano tra loghi, insegne, prodotti, marchi e oggetti-simbolo che hanno creato e creano le atmosfere di un dato periodo, di un’epoca della nostra società mass-globalizzata. Perché il Novecento non è altro che una serie di mini-epoche che si sono susseguite, decennio per decennio, una dopo l’altra: Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta e Zero. Ogni epoca con la sua mitologia consumistica viene raccontata attraverso gli oggetti di uso comune e di design, la musica, la televisione, l’abbigliamento, per definirne il clima: i piumini Monclaire, gli Oro Saiwa (“freschi perché impacchettati caldi”) e il video di Like a Virgin di Madonna parlano di Ottanta, mentre Sessanta ha il sapore del dentifricio Colgate e la faccia sorridente delle gemelle Kessler che ballano come ananas piumati in TV, tanto per fare qualche esempio.

Il bello di questo libro sta nell’idea di fotografare anche in questo modo il nostro recente passato e raccontarlo immaginando una sorta di futuro distopico in cui il tempo è stato bloccato, letteralmente confezionato in scatole, zone delimitate militarmente che convivono in contemporanea non con moto lineare, rettilineo, ma circolare, in stato di loop. Tutto si ripete all’interno del decennio in cui le persone hanno scelto di vivere, eleggendo la loro mini-epoca preferita come patria definitiva, per esorcizzare la paura del futuro. Ogni cosa si ritorna inesorabilmente e non esiste la paura del domani. Si ripetono i fatti mentre la gente invecchia, inebetita ma teoricamente felice. Questo mondo è governato da un regime tirannico che tiene tutto sotto rigoroso e minaccioso controllo: nessuno può uscire dalle zone in cui si è di fatto confinati, non si possono conservare gli oggetti quando a fine decennio passano gli spazzini a ritirare tutto perché si ricomincia. Via i dischi, i mobili, gli abiti, le auto… E’ bandita la malinconia. Gli spazzini sono i controllori che raccolgono gli oggetti che non servono più e verificano che cose e persone non viaggino clandestinamente da un’epoca all’altra, nello spazio e quindi nel tempo.


L’idea è potenzialmente intrigante, se fosse quasi credibile. Perché anche nella storia più fantastica, la credibilità deve esserci! Un esempio? A Settanta lo spazzino comunica con il portatile: come può vivere in quell’epoca sapendo tutto ciò che arriverà dopo, usandone addirittura gli strumenti? Come è possibile che una persona che ha appena vissuto gli anni ribelli del 68, magari vivendone le battaglie, ripartire come se niente fosse dal 1960? La storia deve saperci portare per mano e noi lettori dovremmo lasciarci condurre con fiducia, pensando che abbia un senso, che non sia una fregatura. Dopo aver descritto tutto questo mondo, si raccontano le vicende del protagonista, uno spazzino che accetta il sistema per codardia e comodità, che incontra una traveller, una viaggiatrice clandestina, e qualcosa cambia in lui, facendogli prendere coscienza e coraggio di fare delle scelte libere. 
Mi domando però se questo gioco, a metà tra il fumetto e la fantascienza, parli davvero di noi e della paura che abbiamo del futuro che, dal mio punto di vista, non riguarda la storia e il contesto, ma piuttosto il nostro personale destino.

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