Se non avessi letto su internet
che l’autore ha lavorato in pubblicità, avrei pensato che sicuramente l’autore
è uno che - quanto meno - ha lavorato in pubblicità. Le sue descrizioni
fluttuano tra loghi, insegne, prodotti, marchi e oggetti-simbolo che hanno creato
e creano le atmosfere di un dato periodo, di un’epoca della nostra società
mass-globalizzata. Perché il Novecento non è altro che una serie di mini-epoche
che si sono susseguite, decennio per decennio, una dopo l’altra: Sessanta,
Settanta, Ottanta, Novanta e Zero. Ogni epoca con la sua mitologia consumistica
viene raccontata attraverso gli oggetti di uso comune e di design, la musica,
la televisione, l’abbigliamento, per definirne il clima: i piumini Monclaire,
gli Oro Saiwa (“freschi perché
impacchettati caldi”) e il video di Like a Virgin di Madonna parlano di
Ottanta, mentre Sessanta ha il sapore del dentifricio Colgate e la faccia
sorridente delle gemelle Kessler che ballano come ananas piumati in TV, tanto
per fare qualche esempio.
Il bello di questo libro sta
nell’idea di fotografare anche in questo modo il nostro recente passato e
raccontarlo immaginando una sorta di futuro distopico in cui il tempo è stato
bloccato, letteralmente confezionato in scatole, zone delimitate militarmente
che convivono in contemporanea non con moto lineare, rettilineo, ma circolare,
in stato di loop. Tutto si ripete all’interno del decennio in cui le persone
hanno scelto di vivere, eleggendo la loro mini-epoca preferita come patria
definitiva, per esorcizzare la paura del futuro. Ogni cosa si ritorna
inesorabilmente e non esiste la paura del domani. Si ripetono i fatti mentre la
gente invecchia, inebetita ma teoricamente felice. Questo mondo è governato da
un regime tirannico che tiene tutto sotto rigoroso e minaccioso controllo: nessuno
può uscire dalle zone in cui si è di fatto confinati, non si possono conservare
gli oggetti quando a fine decennio passano gli spazzini a ritirare tutto perché
si ricomincia. Via i dischi, i mobili, gli abiti, le auto… E’ bandita la
malinconia. Gli spazzini sono i controllori che raccolgono gli oggetti che non
servono più e verificano che cose e persone non viaggino clandestinamente da un’epoca
all’altra, nello spazio e quindi nel tempo.
L’idea è potenzialmente
intrigante, se fosse quasi credibile. Perché anche nella storia più fantastica,
la credibilità deve esserci! Un esempio? A Settanta lo spazzino comunica con il
portatile: come può vivere in quell’epoca sapendo tutto ciò che arriverà dopo,
usandone addirittura gli strumenti? Come è possibile che una persona che ha
appena vissuto gli anni ribelli del 68, magari vivendone le battaglie,
ripartire come se niente fosse dal 1960? La storia deve saperci portare per
mano e noi lettori dovremmo lasciarci condurre con fiducia, pensando che abbia un
senso, che non sia una fregatura. Dopo aver descritto tutto questo mondo, si
raccontano le vicende del protagonista, uno spazzino che accetta il sistema per
codardia e comodità, che incontra una traveller, una viaggiatrice clandestina,
e qualcosa cambia in lui, facendogli prendere coscienza e coraggio di fare delle scelte libere.
Mi domando però se questo gioco,
a metà tra il fumetto e la fantascienza, parli davvero di noi e della paura che
abbiamo del futuro che, dal mio punto di vista, non riguarda la storia e il contesto, ma
piuttosto il nostro personale destino.