Jean-Claude Romand vive
un’esistenza irreprensibile: medico affermato presso l’Oms di Ginevra, marito e
padre amorevole, conduce una vita nei canoni del contesto
dell’agiata borghesia del Jura, in Svizzera. Porta i bimbi a scuola, partecipa
a ritrovi con gli amici, è membro attivo della comunità, organizza gite con la
famiglia… Fino a quando tutto il mondo si sgretola, come un quadro lacerato o
il riflesso di uno specchio andato in pezzi. La villetta della famiglia Romand
brucia in un incendio. Vengono trovati privi di vita i due bambini e la moglie
Florence. L’unico a sopravvivere è proprio lui, Jean-Claude, sia pure subito
venga trovato in condizioni disperate. Dopo un periodo di coma, riapre gli
occhi. Nel frattempo la polizia viene a sapere che nessun Jean-Claude Romand
lavora all’Oms di Ginevra e che il suo nome non risulta in alcuna lista di
medici svizzera. Anzi, Jean-Claude Romand non si è mai laureato in medicina.
Pare abbia sostenuto solo qualche esame, poi più nulla. Da un certo momento in
poi, c’è il black out. Jean-Claude Romand ha continuato a vivere come se tutto stesse andando come
sarebbe dovuto andare. La laurea, il matrimonio, i figli… Nel paese in cui
viveva lo vedevano come persona rispettabile e per bene, che andava a messa con
la famiglia, accompagnava i bambini a scuola e partecipava alle riunioni del
consiglio della scuola cattolica frequentata dai figli… Com’è possibile che una
persona del genere abbia, ad un certo punto, ucciso moglie e figli, e poi dato
alle fiamme la sua casa? E oltre a loro, anche i suoi anziani genitori vengono
trovati uccisi. Le prove non lasciano spazio al dubbio: il responsabile è
sempre lui, Jean-Claude.
Ad esserne totalmente sconvolto è innanzitutto il suo
miglior amico, Luc, brillante e integrato, che in tutti quegli anni non ha mai
avuto un dubbio su colui che considerava una delle persone migliori e più
affidabili al mondo. Ha trascorso con Jean-Claude Romand buona parte della
giovinezza, gli studi universitari e condiviso tanti momenti della vita
familiare di entrambi. Si sente come un naufrago che non trova più la terra
ferma sotto i piedi. Possibile che nessuno si sia accorto di quanto stava
accedendo? Nessuno abbia mai avuto un sospetto? Di cosa viveva Jean-Claude?
Come faceva a mantenere quel tenore di vita se non aveva nemmeno un lavoro?
Come trascorreva le sue giornate? Un abisso buio.
Emmanuel Carrere, nel
raccontare questo fatto di cronaca realmente accaduto, si pone il problema del
punto di vista: come raccontare una storia del genere, così inverosimile della
sua cruda realtà? Carrere, sceglie principalmente il proprio punto di vista,
quello dello scrittore irrimediabilmente attratto da una storia che mette a
nudo il labile confine tra la normalità e la follia, un personaggio incapace di
entrare in contatto con il suo vero io che finisce per costruirsi una vita
interamente basata sulla menzogna, e quando questa non regge più, non ha altra
via se non quella della morte. Ma, peccato per lui, pur meditandolo, non riesce
a suicidarsi, probabilmente perché non lo vuole veramente, e allora cancella
quanto intorno a lui è attaccato a quella enorme bugia. L’avversario di se
stesso è sempre lui, “colui che la Bibbia chiama Satana” (E. Carrere).
Scrive Piero Citati: “Lo scrittore francese ripercorre
le tappe dell'esistenza del protagonista, ce lo descrive bambino solitario,
figlio unico desideroso di compiacere le aspettative dei genitori, adolescente
forse iperprotetto, ragazzino giudizioso, calmo e obbediente, goffo nei
rapporti con l'altro sesso, ma più intelligente della media. Carrere cerca di
approfondire, di superare gli schemi riduttivi della psichiatria, di andare
oltre la descrizione dei semplici fatti, per tentare di restituirci la
personalità autentica dell'omicida. E alla fine, se non affetto, riesce a
provare sincera compassione per quest'uomo enigmatico che, cercando di fare il
bene, non riesce che a operare il male”.