Due facce della stessa medaglia, l’Italia nella sua
decadenza morale e culturale, ritratta in questa epoca di sfacelo e profonda
stanchezza dallo sguardo cinematografico di due registi accumunati dallo stesso
nome di battesimo, Paolo: Sorrentino e Virzì. Il primo film è “La grande
bellezza”, attualmente candidato all’Oscar come miglior film straniero e reduce
dal premio del Golden Globe, e l’altro è “Il capitale umano”, da poco nelle
sale. Non entro nel merito di alcune recenti polemiche su entrambi i film, ma
mi limito al mio personale parere.
Da un lato Roma, decadente e lussuriosa, in un quadro
barocco da fine impero, dove i fasti dei palazzi del potere alimentano una
specie di overdose in cui perdersi. Protagonista uno scrittore ormai privo di
ispirazione, un magnifico Toni Servillo, alter ego di Sorrentino, che vive in
un vortice di mondanità e noia, tra vuoti intellettuali e politici corrotti. Una
prima parte molto promettente, ma poi le suggestioni e le promesse, per quel
che mi riguarda, rimangono disattese. Seconda parte noiosa e pretenziosa:
peccato. Credo che questo film possa piacere agli stranieri perché è la
rappresentazione della gloriosa decadenza del nostro paese, tra le rovine di meravigliose
opere d’arte, nel pieno stereotipo dell’immagine che abbiamo all’estero. La
stessa Roma è un quadro barocco e decadente, magnifico eppure corrotto.
Dall’altro lato Milano, dove Virzì ambienta “Il
capitale umano” per parlare della declino dell’animo, in un mondo ossessionato
dal denaro per il quale le persone vengono valutate secondo parametri
speculativi. Qui siamo nella Brianza intesa come luogo non tanto geografico
quanto antropologico, per raccontare con l’artificio narrativo dei diversi
punti di vista la storia di un mistero di cronaca che in realtà è la scusa per
rivelare le fragilità e le vacuità dei personaggi e del loro mondo. In primo
piano ci sono due adolescenti, fidanzati, uno il rampollo di una ricchissima
famiglia, e l’altra la figlia di un agente immobiliare scioccamente ambizioso,
approfittatore e superficiale. La nota stonata di questo film è l’eccessivo
tasso di stupidità proprio di questo personaggio, secondo me interpretato
goffamente da Fabrizio Bentivoglio, quasi fosse la caricatura di una tipologia
umana. Una caricatura poco credibile. A parte questo, il film si rifà con altri
personaggi meglio riusciti: la figlia, ad esempio, che si fa carico di un peso
più grande della sua età e sceglie con coraggio la sensibilità invece dell’apparenza,
e la moglie, interpretata da Valeria Golino, un’intelligente psicologa che non
si capisce come sia finita con un marito così. Poi c’è l’affarista, freddo e
senza scrupoli, tutto preso dal business della finanza e non più dell’economia
vera, quindi tutta questa ricchezza appare volatile e volubile, senza umanità,
come la società attuale; infine sua moglie, insicura, annoiata, inconsistente,
che vorrebbe avere la forza di fare qualcosa di più nella vita, ma alla fine è
complice del sistema.
Due facce di una stessa medaglia, dunque, attualmente senza
una via di uscita e riscatto.