Una recente, personale, curiosità
verso la città di Trieste mi ha portato a prendere in mano un libro che avevo
abbandonato nella mia libreria, comprato da tempo immemore e poi lasciato lì,
dimenticato, in attesa che arrivasse il momento giusto. Ammetto che verso
Susanna Tamaro ho nutrito parecchio pregiudizio: una scrittrice “melensa”, su
cui in diversi non hanno risparmiato una certa ironia. Questo mi ha sicuramente
trattenuto, fino a quando, un pomeriggio afoso di inizio agosto, spinta da uno
stato d’animo consono a tale pregiudizio, ho ritrovato il libro, aperto anche
con la curiosità di carpire un punto di vista sulla città friulana. I
pregiudizi non si sono rivelati del tutto infondati, però mi sono fatta
trascinare dal ritmo di una narrazione intima e “sentita”, protesa verso le
grandi domande sul senso della vita, sulle nostre radici e su ciò che ha realmente
valore ed è la base per costruire l’avvenire; quesiti che prima o poi si devono
affrontare, a meno che non si viva totalmente assorbiti nella dimensione di un
ottuso (volevo quasi dire sano) fare, presi dalla pura e semplice necessità
quotidiana.
La protagonista ha vissuto con la
nonna da quando, all’età di 4 anni, ha perso sua madre. Il loro rapporto è
complicato dai non detti e dai fantasmi di un passato che hanno lasciato aperti
tutti i dubbi e le domande. La nonna, che con evidente amore e in assoluta
buona fede, ha invano tentato di riempire i vuoti che ovviamente sono rimasti
tali, senza aver mai sciolto i nodi del passato, pensando in questo modo di
proteggere la nipote, a partire da quello più grande che riguarda la madre
morta prematuramente. Lei, la madre era figlia del suo tempo, gli anni Settanta,
quelli della rivoluzione dei costumi, della liberazione dai tabù, delle
femministe che volevano rompere le antiche gabbie e costruire un nuovo mondo
senza costrizioni né ingiustizie. Inutile dire che il vicolo cieco in cui si
ritrova la figlia (ovvero la nipote) vuole dimostrare quanto quella
rivoluzione, nella sua radicalità, sia stata forse necessaria ma sicuramente
illusoria e abbia fatto cadere, oltre ai tabù, anche le persone, lasciandole
sole, senza protezione, né fede e amore. La protagonista cresce, quindi, priva
di radici e non è in grado di dare un senso alla propria vita: quando la nonna
muore, decide di andarsele a cercare. Ritrova il padre, un arido professore
universitario che non si era mai voluto occupare di lei, e poi parte per
Israele, in cerca di uno zio fuggito dall’Italia nel dopo guerra, scampato alla
persecuzione nazista.
Poi c’è il tema, simbolico, degli
alberi, che hanno radici, sono attaccate alla terra ma protesi verso il cielo.
Il libro comincia dal taglio di un albero nel giardino di casa che scatena una
lacerazione nella ragazza. Nella storia si ritrovano altri alberi, come quelli
coltivati con amore dallo zio in Israele, che indicano la pace interiore e
l’amore, il fine ultimo a cui si aspira nella vita.