Il libro si apre e si chiude parlando di libri. In mezzo c’è un mondo, anzi
il mondo, il racconto di un vita intensa da inviato speciale, trascorsa a
zigzagare in ogni angolo della terra, dal lontano Giappone allo sperduto Sud
America, dalle gelide notti di Mosca che raccoglievano i pezzi del socialismo
reale alle luci bianche di Washington, passando per la guerra in Iran, i
Mondiali di calcio della Corea e un’infinità di altri luoghi, piccoli e grandi,
celebri e sconosciuti, in una sorta di immaginario, grande zapping. Tra pagine
autobiografiche nate dagli oggetti, il ricordo si sprigiona sul filo delle cose
perdute, a cominciare da quello infantile del ticchettio notturno della Lettera
22, la macchina da scrivere del padre, Guglielmo, anche lui giornalista e
scrittore. Quella di Vittorio Zucconi è una scrittura limpida e acuta,
invidiabile, accarezzata da una garbata e sagace ironia, a volte
un po’ dispettosa quando spezza la frase principale infilando nel mezzo un
dedalo di coordinante e subordinate, per ricollegare il filo diverse righe dopo.
Un’abilità di pochi, secondo me, che si prende qualche rischio ed è anche un
modo per mantenere viva l’attenzione e non perdersi lungo la scia dei ricordi di
una vita davvero intensa e ricchissima. Zucconi, giornalista e inviato speciale
delle principali testate italiane, ha avuto il privilegio di essere in prima
fila nei momenti in cui si è fatta la storia del secondo Novecento, quella con la
S maiuscola, e l’ha saputa mescolare con eleganza alla storia spicciola di
tutti i giorni in un impasto intimo e personale che si presenta anche come una
grande finestra aperta sul mondo, come quella dell’hotel Hong Kong, tra
Victoria Harbor e la Baia di Kowloon. Bellissima l’immagine dei saliscendi su improbabili aerei a inseguire le adrenaliniche campagne elettorali di futuri presidenti americani,
come Ronald Regan e Bill Clinton, con l’intercalare del capitolo dedicato a
Hillary, intrappolata nella rete del suo perfettismo, tra pubblico e privato.
O, ancora, quando racconta l’evoluzione epocale e straordinaria vissuta dal
giornalismo di questi ultimi decenni, che comincia con l’odore del piombo fuso
dei linotipisti e arriva a internet, e la teiera di Hiroshima, intorno
alla quale si compone il dialogo con una sopravvissuta alla Bomba diventata
anziana. Indimenticabile il casco in testa a Oriana Fallaci mentre corrono
insieme ad altri giornalisti su un pulmino nel deserto per assistere alla
liberazione di Kuwait city, tra missili Scud e mine antiuomo, e finiscono a
mangiare wafer al cioccolato. Sono solo alcuni assaggi di un libro che si gusta
con estremo piacere, ascoltando una voce narrante tanto autentica e sincera che
pare di conoscere da sempre.
Scrivo quindi sono, dice Zucconi. “Del sonno che tarda a venire, nel caldo
di un cuscino arroventato, ma sorretto dalla speranza che dall’altra parte del
guanciale ci sia sempre un lato più fresco.” Vittorio Zucconi se n’è andato
quest’anno, ed è stata una grande perdita. E’ stato un giornalista con la penna
fine dello scrittore, un inviato speciale che ha conservato l’affabilità dell’uomo
di provincia: amava i “posti buoni” come Milano marittima preferendoli ai tanti
“posti belli” nel mondo. Le radici modenesi sono rimaste nel cuore benché
l’infanzia sia stata milanese, già proiettata verso un destino segnato dal ticchettio
della macchina da scrivere paterna. Il legame con questa città si è mantenuto
forte forse perché in qualche modo idealizzato e rinsaldato dalla lontananza. In
una bella intervista per una televisione locale qualche anno fa Vittorio ha
detto che “Modena è l’antidoto migliore al panico da globalizzazione”.
Un bel complimento.