Uno
scrittore di thriller scrive una (specie di) storia d’amore. Il romanzo è in
realtà un gioco di scatole cinesi, ognuna delle quali contiene una storia,
concatenata l’una all’altra in un continuo richiamo. Questo perdersi nelle
storie che si aprono come parentesi pare un divertimento
gratuito, fine a se stesso, come se il narratore si atteggiasse a moderno Shahrazàd convinto di ammaliare il lettore mettendo in fila una
serie di situazioni volutamente studiate per stupire, che sembrano costruite
“ad arte” per produrre un determinato effetto.
L’atteggiarsi da scrittore che
racconta la storia di un personaggio-narratore (una sorta di alter ego) in
possesso delle magiche chiavi per
aprire tante porte (alis, tante storie), per dire cosa? Chi era l’uomo che
fumava mentre il Titanic affondava? Da dove veniva il suo sigaro d’argento?
Cosa sono le montagne cantanti della Cina? La sfida di trovare il nome della
bella Isabel? Chi lasciava i misteriosi fiori di carta nel camice del dottore?
Perché il condannato a morte sul Monte Fumo non voleva rivelare nome e grado? E
come mai questa ossessione per il fumo, che collega l’arte di fumare con quella
di raccontare storie?
Pare che questo romanzo nasca da una scommessa dell’autore
con un giornalista: quest’ultimo lo aveva sfidato a raccontare una storia
d’amore con le stesse regole del thriller. Non so chi dei due si ritenga
vincitore della scommessa; per quel che mi riguarda, questo è un romanzo eccessivamente artificiale. Non credo
che lo scopo della scrittura sia raccontare a vuoto, creando solo l’effetto di un senso. Forse m’illudo.